Non sorgerà in Pianura Padana, ma si ergerà tra i canali della Venezia del nord la nuova sede dell’European Medicines Agency, pronta a lasciare Londra e l’isola Britannica per approdare sul Continente. Il passo è considerevole, ma non così lungo quanto tutti abbiamo sperato, chi per semplice patriottismo, chi invece conscio dei benefici che ciò avrebbe comportato, da un punto di vista strategico, politico ed economico.
Brucia ancora, a più di una settimana di distanza, la beffarda assegnazione ad Amsterdam dell’Agenzia Europea del Farmaco che ha visto Milano soccombere per sorteggio dopo essere stata in vantaggio alle prime due tornate di votazione e dopo che la terza si era conclusa sul tredici pari.
Il complesso metodo di votazione aveva già destato alcune perplessità ed in molti avevano immaginato che la sorpresa potesse essere dietro l’angolo.
Ma non era solo la medodologia di voto il motivo delle grandi incertezze che ruotavano attorno alla votazione.
Attorno al voto gravitavano infatti una serie di interessi ed accordi trasversali che ne minavano l’imparzialità, il tutto condito dai sempre vivi e diffusi individualismi statali, ancora riluttanti e ben lontani dal considerarsi “uniti in un sol patto” e votati alla bandiera a 12 stelle, ma anzi ancora bramosi di ottenere piccole ed egoistiche conquiste, perdendo di vista la visione più ampia dello stare insieme in questa tanto vituperata”casa europea”.
Non vi è un solo sconfitto, in questa vicenda.
In primo luogo, è una sconfitta per l’UE, ed i motivi sono almeno due. L’Unione ha voluto mantenere un profilo neutrale, evitando di stilare una graduatoria che fosse basata su requisiti e dati tecnici ma mostrando un’imparzialità forse addirittura eccessiva, la quale rischiava di portare a scelte controproducenti e mal ponderate.
In aggiunta, relegare ad un mero sorteggio una scelta così importante, decidendo dunque di non decidere, o non trovando valide alternative ai meccanismi di voto adottati, è un poco incoraggiante segnale di debolezza.
Ma questa è anche e soprattutto una sconfitta per il nostro paese. Oltre ad aver perso l’occasione di riacquisire prestigio sulla scena continentale, la sconfitta si manifesta da un punto di vista economico (è stimato che l’EMA avrebbe portato un indotto economico di più di un miliardo di euro), ed ancor più da un punto di vista politico.
Non tanto per le argomentazioni adottate a sostegno della candidatura di Milano (ottimi i richiami alla potenziale cooperazione con l’Agenzia Italiana del farmaco, assolutamente all’avanguardia rispetto alla scena Europea) quanto per le risposte che le varie forze politiche hanno dato a questa sconfitta.
Pare che nemmeno questa débacle dal punto di vista politico sia stata motivo per mettersi in discussione in maniera più ampia riguardo all’approccio ed alle competenze che il nostro paese possiede sulle tematiche europee.
Il dibattito si è ridotto alla diffusione di una fake news riguardo ad una presunta brochure scarna e mal impaginata sottoposta al Consiglio per presentare la propria candidatura, che ha sortito il solo effetto di fornire ai social addicted qualche ora di aride schermaglie a mezzo tastiera, ed al biasimo, da più parti, per il fatto che alla votazione non fosse presente il premier Gentiloni (o il Ministro degli Esteri Alfano) ma solo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega agli affari Europei Sandro Gozi.
Pura propaganda politica che non inquadra minimamente il problema. Nonostante tutto ciò che abbiate letto o ciò che ne pensiate, alla votazione non erano presenti né Angela Merkel né Emanuelle Macròn. La Francia ha mandato Nathalie Loiseau e la Germania Michael Roth, i quali ricoprono la funzione equivalente a quella di Sandro Gozi in Italia.
L’errore ha più risvolti: si passa dalla poca conoscenza delle dinamiche europee alla pura irresponsabilità di fronte all’elettorato che ha invece necessità sempre crescente di conoscere quali siano le vere dinamiche che governano le Istituzioni Europee.
Sarebbe ora di smettere di riferirsi a Bruxelles tacciandola di essere una tecnocrazia fatta di burocrati che impongono agli Stati la propria volontà. I c.d. burocrati (ovverosia i funzionari della Commissione Europea) non hanno alcun potere decisionale. Qualsiasi proposta legislativa è vagliata dal Consiglio e dal Parlamento Europeo, in cui a prevalere sono preminentemente gli interessi statali.
Sebbene sia risibile pensare che la presenza del nostro Premier il giorno delle votazioni avrebbe potuto in qualche modo cambiare le sorti della votazione stessa (come se una decisione del genere fosse frutto dell’improvvisazione e delle sensazioni del momento e non il risultato di delicate e continue relazioni diplomatiche) è altrettanto importante evidenziare che, storicamente, l’esperto operatore italiano in ambito europeo badi troppo alla forma e molto poco alla sostanza, denotando una scarsa conoscenza di quelle che sono le dinamiche che determinano la presa di decisione a livello Unitario.
Il dubbio è serio e profondo: ciò accade per semplice irresponsabilità politica verso l’elettorato? O accade perché dopo 60 anni di trattati non abbiamo ancora capito (o non ci è mai interessato veramente capire) quale sia la strada da percorrere al fine di raggiungere i propri obiettivi in ambito europeo? O entrambe le cose insieme?
È sempre la stessa storia che si ripete. Il rappresentante di interessi italiano ritiene di poter discutere e negoziare condizioni favorevoli ai propri affari direttamente con un Direttore Generale, fiero di essere stato ricevuto ed ascoltato dalle più alte sfere gerarchiche della Commissione, trascurando che quando le questioni arrivano ad un direttore generale i giochi siano già fatti e le leggi sostanzialmente già scritte, attraverso il lavoro, già durato mesi, di centinaia di funzionari, coordinati dai capi unità. Salvo poi lamentarsi poiché il proprio interesse non è stato rispettato.
E così anche in ambito politico, il messaggio che passa, per pura propaganda, è che se il Premier Gentiloni fosse andato a stringere qualche mano il giorno della votazione l’esito oggi sarebbe stato diverso, trascurando completamente le dinamiche che influenzano realmente la governance europea.
Come sono andate realmente le cose riguardo ad EMA?
Una piccola inside information giunta in maniera del tutto informale riferisce che la candidatura di Amsterdam ha guadagnato rapidi e solidi consensi poiché con maggior tempestività è stato individuato il fattore determinante e strategico su cui puntare: i dipendenti di EMA.
Il governo olandese ha saputo far leva sulla volontà di quasi 900 persone, tra assistenti e funzionari, mostrando loro quali opportunità, benefits, servizi, facilities, sistemazioni ed infrastrutture sarebbero state messe loro a disposizione se si fossero trasferiti in Olanda.
È da questo anelito pro-Amsterdam interno all’Agenzia (il cui Direttore, tra l’altro, è Italiano) che si è innescato un diffuso meccanismo di convincimento verso la metropoli olandese sfociato sì, sicuramente, in accordi trasversali e scambi di favori, ma celati sotto il nobile cappello del rispetto della volontà dei dipendenti di EMA, indirizzati verso la piccola e non poi così influente Olanda (nonostante il riguardo sempre riservato ad uno dei paesi fondatori dell’Unione – in seno al Consiglio il voto del Be-Ne-Lux, riunito, è storicamente valso quanto i voti di Francia Italia e Germania).
A riprova di ciò, basti pensare che inizialmente la vera antagonista di Milano nei sondaggi apparisse essere Bratislava (scartata addirittura al primo turno), attraverso un’apertura geo-politica che caldeggiava il trasferimento dell’Agenzia verso una città dell’Est Europa.
La candidatura è rapidamente precipitata proprio a causa del malcontento di numerosi dipendenti i quali sono arrivati a minacciare l’abbandono del posto di lavoro se la sede fosse stata trasferita in Slovacchia.
Nei sondaggi interni all’Agenzia, infatti, la città slovacca riscuoteva ben pochi consensi mentre Amsterdam era l’assoluta prima scelta.
I giochi di potere ed i sottili equilibri tra gli Stati Membri hanno fatto il resto.
Come avrebbe detto il Dalai Lama, “quando perdi, non perdere la lezione”.
È auspicabile un cambio di atteggiamento ed una maggiore presa di coscienza riguardo alle tematiche europee, che troppo spesso vengono utilizzate esclusivamente come parafulmine, indicate come l’unico ed il solo responsabile di scelte politiche inevitabili, a livello nazionale, di fronte alle quali il governo non ha potuto far altro che dar seguito passivamente, chinando il capo. La realtà è ben diversa.
L’Europa, con tutti suoi difetti, è fonte di grande opportunità, ed è l’unico strumento che abbiamo a disposizione per poter tutelare e far valere i nostri interessi sulla scena globale, la quale si sta arricchendo di realtà economiche dirompenti che non esistevano o quasi fino a un paio di decenni fa.
Nessun paese europeo, nemmeno la Germania, da sola, potrebbe rivestire una posizione di forza nella contrattazione con le potenze economiche del terzo millenio.
Se la riluttanza e la diffidenza riguardo a una progressiva cessione di sovranità a favore dell’Unione sono ancora diffuse in tutto il continente, dove, tra l’altro, pericolosi rigurgiti nazionalisti stanno minando il primo punto dei Criteri di Copenhagen, è però doveroso da parte del nostro Paese acquisire maggiore consapevolezza di ciò che già esiste ed è possibile ottenere attraverso i Trattati oggi in vigore, massimizzando ed ampliando i numerosi benefici che da essi possiamo trarre.
Avv. Andrea Mangia
Avvocato in Piacenza